venerdì 3 dicembre 2010

Kremisi 3 - Quartiere Africano

Ho rivisitato qualcosa che avevo scritto tempo addietro. Mi piaceva di più lo sfondo.
Ecco qua. L'avevo presentato per un concorso, ovviamente con risultati scarsi, d'altronde anche io avrei premiato altri. :)

Sono cresciuto nel Quartiere Africano. Che come nome fa pensare a scontri di etnie. Ti fa sentire un marsigliese romano. In realtà non è vero un cazzo. Non vendevano nemmeno il kebab al Quartiere Africano. Almeno finché non è diventato di moda. Che ora se apri una pizzeria che non ha il rullo per la carne allora sei destinato a fallire. E' una zona borghese in realtà. Con tutti quei negozi a Viale Libia e la Scuola Montessori e i gruppi di scout e i cornetti di Romoli. Insomma dovrei essere normale. Invece no. Dovrei pensare a fare carriera. Invece no. Dovrei sentirmi borghese anche io, riprodurmi e insegnare ai miei figli come si fa a essere un italiano medio. Invece no. E io mica lo so il motivo di questo invece no. Non lo so per niente. Da dove mi arriva la rabbia?

Per fortuna che in televisione te la fanno facile. Quante stronzate. Un tizio fa fuori 58 persone e ti raccontano che tutto era scritto nel suo passato. Che quello ha il pedigree da ammazzatore seriale. Che pisciava nel letto quando era ragazzino. E che poi infilzava ranocchie e storpiava cani e ficcava petardi nel culo dei gatti del vicinato. Ed è ovvio dato che tutti i serial killer hanno quelle cose in comune. Ma che cazzate.

Cercano solo di trovare un MCD, un fottutissimo minimo comun denominatore, perché così forse l'uomo qualunque riesce a farsene una ragione e a dormire tranquillo. Che tutto ha un senso. La verità è che sono stronzate. Cazzate. Delle stronzate del cazzo.

Oggi sono alla Stazione Nomentana. Un crocevia strano che separa il Quartiere Africano da quello delle Valli. La ferrovia corre parallela alla tangenziale est. Osservo le macchine che passano veloci. E osservo uno dei piloni che sorreggono il cavalcavia. E' un pilone cavo. Proprio così. Non so se a causa di lavori o semplicemente grazie alle unghie di qualche disperato, ora c'è un'apertura alla base del pilone. E all'interno qualcuno ci ha ricavato un monolocale. Osservo un paio di magliette che oscillano per il movimento d'aria dovuto alle macchine che corrono lì accanto. Ci sono magliette e quadri. Piuttosto belli anche. Mi soffermo a pensare che in vita mia non sono mai riuscito a disegnare nemmeno una casetta col caminetto. E' una serata umida, un sabato sera umido con poca pochissima gente in giro. Roma non è una città violenta. Per niente. Io di solito non sono violento. Non ho nessun motivo per uccidere, almeno credo. Oramai non me lo chiedo nemmeno più. Eppure uccido. Dovrei dire uccidiamo.

Noi siamo in tre. Come i porcellini. Come i nipoti saputelli di Paperino. Ci siamo dati dei nomi, che solo Tizio Caio e Sempronio pareva brutto. Uno Nessuno e Cento. Io sono quello di mezzo. E abbiamo spazio anche per un quarto, possibilmente donna. Mila. Me la immagino rossa di capelli.

Non ho idea di che faccia abbiano gli altri. La Rete è l'unica cosa che ci unisce. Oltre alla nostra piccola deviazione comune. Uccidere.

Noi lo facciamo in parallelo. Tipologia di luogo. Giorno. Modus operandi. Tutto deciso prima. Come se fosse una serata a tema a cui ognuno partecipa per cazzi suoi. Ogni tanto tre omicidi tre e tutti tremendamente simili tra loro. Ma in città diverse. Per inciso, non mi sono mai pisciato addosso. E i miei sono delle persone normalissime. Solo che a me a un certo punto sono venuti fuori questi impulsi. Insieme ai brufoli probabilmente.

Stasera abbiamo deciso stazione. Coltello affilato. E io sono pronto. Il treno passa e non si ferma. Chiudo e gli occhi e mi faccio rapire dal ritmo delle travertine. Per terminare qualcuno ci vuole qualcosa che ti dia ritmo. Per pompare adrenalina. Senti il sangue frusciare nelle orecchie. Ci vuole niente e ti distrai. Controllo il respiro poi mi muovo.

Io sono pronto e questo è il momento giusto. Il coglione che abita nel pilone esce a prendersi una t-shirt. Mi vede. Mi saluta anche. Poi ritorna alla sua postazione. Dipinge e mi dà le spalle. E' un tipo fatto così. Né alto né basso. Né magro né grasso. Senza razza. Senza paese. Forse come me, senza speranza. Gli lascio trenta secondi di pittura, tanto per dargli modo di rimirare il suo talento per l'ultima volta. Conto pazientemente e mi avvicino lento e invisibile. Il colore della t-shirt da vicino è diverso. Sembrava sbiadita. Invece sono macchie di giallo e di bianco. I particolare mi piacciono. Mi fanno stare meglio e rendono la vita migliore. Poi gli affondo la lama in un fianco. E gli sussurro due parole. Ciao stronzo. Tanto per fargli pensare che ci sia un motivo. Tanto per fargli credere che sta morendo per qualcosa che ha fatto o che ha detto o che non ha fatto o che non ha detto. Ho una mia morale in questo. In punto di morte anche io vorrò sapere perché. Non si può morire per sentito dire. Poi gli apro la gola e lo osservo. Cinque secondi al massimo. Con le lacrime agli occhi. Non so se per la gioia o perché mi dispiaccia. Passa di nuovo un altro treno veloce costante e ritmico. Il cuore strizza il sangue e lo spinge via. Il rischio c'è. Ma in città nessuno guarda. Nessuno nota. Nessuno ascolta. Tutti corrono. Io invece mi muovo lento e dopo cinque minuti sono un'ombra. Con l'iphone aggiorno twitter. Mission completed. Infine sono meno di un'ombra. Sono Nessuno. E la città mi accoglie di nuovo come una madre superficiale dalle poche domande.

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